Saimir
Regia: Francesco Munzi. Soggetto: Francesco Munzi. Sceneggiatura: Francesco Munzi, Serena Brugnolo, Dino Gentili. Fotografia: Vladan Radovic (colore). Musica: Giuliano Taviani. Montaggio: Roberto Missiroli. Interpreti: Mishel Manoku, Xhevdet Feri, Lavinia Guglielman, Anna Ferruzzo. Produzione: Cristiano Bortone, Daniele Mazzocca Gianluca Arcopinto per Orisa Produzioni/Pablo Produzioni. Durata: 88 minuti. Origine: Italia, 2004.
Edmund è il padre del sedicenne Saimir. I due hanno lasciato l’Albania per tentare di farsi una vita in Italia. L’uomo possiede un camion che utilizza per trasportare merce e nascondere attività di altro genere che gli permettono di “arrotondare”: spesso mette a disposizione il mezzo per il trasporto di clandestini. Saimir, che nel frattempo racimola denaro praticando piccoli furti, sogna di trovare un lavoro e di stringere rapporti puliti con coetanei italiani. L’opportunità gli è offerta da Michela, una ragazza conosciuta al mare. Proprio quando l’amicizia sta per diventare qualcosa di più, lei scopre la condotta illegale di Saimir. Il seguente abbandono ferisce il ragazzo che, contemporaneamente, entra in conflitto con il padre. L'uomo non può offrirsi come modello positivo dal momento in cui accetta di trasportare una minorenne slava, attirata in Italia con false promesse e poi stuprata dal gruppo di trafficanti col preciso intento di farne una prostituta. Saimir, dopo aver vanamente chiesto al padre di dissociarsi dal gruppo di criminali, soffocato dalla sensazione di vivere in una prigione senza uscita, denuncia il genitore e la banda di albanesi, liberando la giovane da un incubo.
Il film ci mette immediatamente di fronte alla realtà che fa da scenario alla vicenda. Si tratta del territorio del litorale laziale, il cui degrado ambientale è ottimamente reso da una fotografia grigia e fredda, di stampo documentarista, che ben si adatta alle atmosfere cupe di questa anonima periferia romana. La luce livida del mattino e l’oscurità notturna diventano così gli sfondi più adeguati a nascondere una microsocietà invisibile che occupa gli interstizi depressi e abbandonati del nostro benessere. Questo rapporto fra individuo e ambiente sociale, che il regista riesce ad esprimere con aspro e asciutto realismo, costituisce una dei punti di forza del film, insieme ad uso di attori non-professionisti, estremamente credibili ed efficaci nell’interpretare praticamente se stessi e nel parlare la propria lingua d’origine, conferendo così ai personaggi un’accentuata configurazione di difficoltà comunicativa nelle relazioni interpersonali e con il contesto che li circonda. Ciò che il personaggio di Saimir rappresenta è l’emergere in un adolescente immigrato di un profondo disagio morale che lo porta a rifiutare o, meglio, a cercare di rifiutare il proprio destino inteso come un’esistenza vissuta nell’illegalità e nella marginalità. Il suo gesto finale esprime una rivolta soprattutto nei confronti del padre ed un’affermazione di umana solidarietà verso una coetanea vittima del racket della prostituzione. Nel giovane protagonista non prevale tanto un’astratta affermazione di legalità, ma una reazione emotiva e passionale al senso di ingiusta condanna ad una condizione di umiliante degradazione. Ricordiamo un film che pare affine a Saimir: La Promesse dei Dardenne, che metteva in scena una storia simile, anche nelle dinamiche relazionali padre-figlio. Emerge anche nel film di Munzi la mancanza cronica di modelli adulti, di una guida capace di ascoltare e di offrire un’etica condivisibile, di tratteggiare una strada percorribile lontana dalla miseria (soprattutto quella dell’anima). L’adulto, invece, è terribilmente invischiato nel pantano, appesantito da logiche che rispondono unicamente a meccanismi di sopravvivenza. Niente di più. Un cinismo esasperato che non ammette sogni irraggiungibili, ma che conosce semmai il dramma della povertà. Tradire il padre diventa così gesto estremo, urlo disperato, per sentire di avere alternative, per convincersi che la vita può essere altro.