Inside Job
Regia: Charles Ferguson. Interpreti: Matt Demon. Durata: 120 minuti. Origine: USA, 2010.
Premio Oscar al miglior documentario, “Inside Job” è la cronaca del crudo risveglio di un sistema che si credeva invincibile, capace di convertire tutto e tutti alla religione del profitto senza freni, il racconto, come se fosse un giallo, dell’assassinio dell’economia mondiale. E l’elenco dei colpevoli è lungo e doloroso, così come la lista dei politici e dei manager che, in ossequio alle leggi di Wall Street, si sono rifiutati di rispondere alle domande del regista.
Con un rigore da far invidia a Cartesio, Ferguson ha ricostruito la ragnatela di responsabilità e di interessi che hanno portato alla più grave crisi economica dal 1929 e che ha rischiato di mettere sul lastrico l’economia di tutto il mondo. Si comincia con quella islandese che nel 2008 ha mandato in bancarotta un intero stato (la Febbre speculativa importata da Wall Street aveva spinto le banche locali a indebitarsi per un valore di dieci volte superiore al prodotto interno lordo) e si arriva fino alle recentissime audizioni dei manager Goldman Sachs davanti alla commissione del Senato americano. In mezzo, per quasi due ore, la ricostruzione di come la finanza ha speculato e di fatto ingannato (di questo sono accusati i responsabili della Goldman Sachs) migliaia di risparmiatori in tutto il mondo. Ma a mettere davvero più paura di un film horror sono soprattutto le responsabilità e le complicità di chi, quelle speculazioni, avrebbe dovuto contrastarle e combatterle e invece le ha - a volte spudoratamente - favorite. Il film, però, non prende mai la “strada Michael Moore”, evita accuratamente l’ironia, non si fa scudo dietro a nessuna certezza ideologica: fa parlare i protagonisti e soprattutto sa fare le domande giuste. Senza reticenze o falsi pudori. Ci sono gli “accusatori”, come certi economisti e certi politici (c’è anche Eliot Spitzer, che prima di dover dare le dimissioni per uno scandalo sessuale dalla carica di governatore di New York aveva cercato di fare luce sulle banche d’investimento e sui loro metodi), ci sono i “testimoni eccellenti” (come il ministro delle Finanze francese o il presidente del Fondo monetario internazionale) e ci sono i tanti difensori della deregulation (voluta da Reagan ma confermata da tutti i suoi successori) che finiscono per balbettare o chiedono stizziti di interrompere l’intervista quando Ferguson li incalza sui loro “conflitti d’interesse”: chi ha esaltato la stabilità dell’economia islandese senza dire che era stato pagato dalla Camera di commercio di quello stato, chi nasconde i propri (lauti) guadagni come consulente della banche d’affari, chi trova “normale” che i corsi universitari che teorizzano l’assenza di controlli siano pagati da chi, di quella deregulation, trae i vantaggi maggiori… Senza mai voler essere protagonista, ma senza dimenticare il suo dovere di scavare a fondo, Ferguson costruisce un bel film che non ha momenti di pausa, non dimentica le regole del montaggio e il piacere dell’occhio, ma che soprattutto non abdica al dovere di usare il cinema per colloquiare con l’intelligenza del pubblico.